23 Apr 5 riflessioni sul futuro dell’editoria italiana

Elisabetta Zoni
In occasione della Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore del 23 aprile 2016, TradInFo intervista Elisabetta Zoni, traduttrice editoriale e socia di lunga data, per commentare la firma del protocollo d’intesa “Le buone pratiche per un’editoria sana – Linee guida per un rapporto giusto tra editori e traduttori”.
Con Elisabetta, vediamo perché questo accordo è così importante e cosa possiamo fare per innescare un cambiamento su più ampia scala.
Il 3 aprile scorso a Milano, in occasione della fiera Book Pride, è stato sottoscritto un protocollo d’intesa fra l’ODEI – Osservatorio degli Editori Indipendenti – SLC CGIL – Sindacato dei Lavoratori della Comunicazione – e l’associazione STradE – Sindacato dei Traduttori Editoriali. L’accordo è stato salutato dalle parti come un grande passo avanti. Qual è la tua valutazione?
Benché non si tratti di un documento vincolante, è senz’altro un importante traguardo, raggiunto anche grazie all’impegno e alla perseveranza di STradE. Si tratta ora di dare la massima diffusione al documento, di farlo conoscere al maggior numero possibile di professionisti, in modo che possano richiamarlo come riferimento nelle situazioni concrete di negoziazione con gli editori. È, inoltre, un accordo che lascia ben sperare per l’avanzamento di altre figure professionali editoriali e i cui effetti positivi, un domani, potrebbero farsi sentire per contagio anche nella grande editoria.
Nella presentazione del protocollo si parla di buone pratiche per un’editoria sana. Che cosa è, secondo te, un’editoria sana?
Innanzitutto deve essere il più possibile plurale e diversificata: amo molto il concetto culturale di bibliodiversità promosso da ODEI, che fa eco a quello scientifico di biodiversità. Se da un lato in Italia si è arrivati a un caso come quello di Mondazzoli, è anche vero che il resto del settore editoriale non ha tardato a reagire, dimostrando di avere ottimi anticorpi. Non parlo solo della decisione di Adelphi e delle migliori penne della Bompiani di staccarsi dal nuovo colosso e, nel secondo caso, di costruire la Nave di Teseo, ma anche del fatto che l’editoria medio-piccola e indipendente è viva e vegeta, come dimostrano iniziative quali Book Pride.
L’altro concetto importante lanciato da ODEI è quello di libro come bene comune e l’idea di cura della qualità che ne consegue: spesso sono proprio gli editori indipendenti a fare più attenzione a questo aspetto. L’accesso a traduzioni di qualità da molte lingue è, oggi più che mai, strumento indispensabile di comunicazione e integrazione fra culture diverse e, più in generale, la lettura riveste un ruolo importante nella formazione di cittadini in possesso di un buon livello di istruzione. Tutto questo non può che essere favorito da un’editoria che fornisca condizioni di lavoro più eque, che garantiscano una maggiore serenità consentendo a chi traduce, come rimarca STradE, di dedicarsi alla creazione di buoni libri.
Quale può essere oggi il contributo di associazioni e sindacati al riconoscimento dei diritti dei traduttori e a un maggiore rispetto della loro figura professionale?
È essenziale che si sia fatto un passo verso una più stabile collaborazione fra i tre principali soggetti in campo: traduttori, editori e sindacato. Ritengo auspicabile che quest’ultimo (in particolare la CGIL) svolga d’ora in poi un ruolo più attivo nelle contrattazioni che riguardano i lavoratori della comunicazione in particolare e quelli cognitivi in generale, che in gran parte non sono inquadrati come lavoratori subordinati ma rientrano nella categoria in passato nota come “lavoratori atipici”. Mi sembra che il ruolo di primo piano svolto in questo accordo dalla CGIL si inserisca nel quadro del suo attuale progetto di elaborazione di una Carta dei diritti universali del lavoro, che è una tappa essenziale nel rinnovamento dell’istituzione sindacale in senso realmente inclusivo.
Quali sono i miglioramenti concreti che il protocollo introduce per i traduttori editoriali?
Nel complesso si può dire che avvicina la condizione del traduttore un po’ di più a quella dell’autore: l’unico riferimento per i contratti diventa la legge sul diritto d’autore.
Poi c’è l’istanza di massima visibilità per il nome del traduttore (in copertina o almeno sul frontespizio), su cui sicuramente si concentrerà la gran parte dei commenti, anche se a questo riguardo soprattutto nell’editoria indipendente di piccole e medie dimensioni, la situazione era di molto migliorata già prima dell’accordo.
Il punto veramente importante, a mio parere, è l’affermazione del diritto del traduttore di partecipare alla revisione del proprio testo e di avere l’ultima parola sul suo lavoro.
Non meno importante poi è l’eliminazione di clausole che danno all’editore il potere assoluto di decidere, ad esempio, se rifiutare la traduzione, pagare o meno il traduttore oppure decurtargli il compenso o posticipare le scadenze di pagamento.
Che cosa si può fare perché quest’accordo e i principi a cui si ispira abbiano la massima efficacia
Fondamentale è il ruolo delle istituzioni di formazione universitarie, così come quello delle associazioni di categoria (in primis STradE e naturalmente anche la nostra TradInFo) che a loro volta possono e devono interagire con l’università per diffondere negli aspiranti traduttori, o nei colleghi professionalmente più giovani, la consapevolezza del proprio valore e l’importanza di una deontologia, di un’etica del tradurre.
A mio parere si dovrebbe anche agire di concerto con i sindacati, con cui va intessuto un rapporto più approfondito. È risaputo che le norme restano lettera morta se non vi è una cultura pronta ad accoglierle. Questa cultura va creata, appunto, attraverso la formazione: i traduttori possono essere all’avanguardia nell’empowerment, cioè nel diffondere e promuovere l’autonomia e il valore dei lavoratori cognitivi in generale, ossia dei lavoratori di domani, ma di un domani che è già presente.
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