“Dreaming Murakami”: la letteratura vista con gli occhi di chi la traduce

“Dreaming Murakami”: la letteratura vista con gli occhi di chi la traduce

11 Lug “Dreaming Murakami”: la letteratura vista con gli occhi di chi la traduce

di Laura Gervasi ed Elisabetta Zoni

Un film biografico

Lo scorso giugno, nell’ambito del Biografilm Festival di Bologna, è stato proiettato il documentario del regista danese Nitesh Anjaan, Dreaming Murakami. A dispetto di quanto il titolo potrebbe suggerire, il documentario non è incentrato – per lo meno non in modo diretto – sul celebre autore giapponese, ma sulla traduttrice delle sue opere in danese, Mette Holm.

Questo primo cambio di prospettiva vede il traduttore uscire dall’ombra per diventare protagonista e mostrarci il processo mentale ed esperienziale che conduce alla trasposizione di un contenuto da una lingua a un’altra. Di per sé questo sarebbe già sufficiente a rendere la pellicola interessante per noi traduttori, interpreti e professionisti del linguaggio e in generale per chiunque si sia almeno una volta interrogato sul potere delle lingue e delle parole come veicolo di una cultura, di una visione del mondo.

Ma dietro questa evidenza c’è di più. Alternando scene oniriche, in cui una creatura immaginaria che popola il mondo del grande scrittore giapponese prende vita e accompagna la traduttrice nella sua routine quotidiana, a scene che seguono e svelano allo spettatore il minuzioso lavoro di ricerca che ogni traduzione comporta, Dreaming Murakami è un documentario affascinante che offre diversi livelli interpretativi e altrettanti spunti di riflessione.
Ci mostra innanzitutto quanto la traduzione di un’opera letteraria non sia cosa semplice o scontata, né tantomeno un processo automatico, ma piuttosto un’esperienza totalizzante, in cui si finisce per immergersi nell’immaginario dell’autore e per indossarne la pelle. Ci parla poi della responsabilità che chi traduce si assume nei confronti dei lettori: questi, non avendo accesso alla lingua originale, conosceranno l’autore e il suo mondo solo attraverso la parola tradotta. Insomma, vi consigliamo di guardare questo breve documentario che dura poco meno di un’ora, e di seguito vi anticipiamo alcuni dei momenti che, per una ragione o per l’altra, ci hanno più colpito.

Peripezie quotidiane di una traduttrice

Il leitmotiv della pellicola è una frase dal romanzo di Murakami a cui la traduttrice sta lavorando al momento delle riprese: Ascolta la canzone del vento, tratto da Vento e Flipper. Nella versione originale giapponese, come scopriamo dalle parole della stessa traduttrice, questa frase può prestarsi a interpretazioni e, di conseguenza, a traduzioni diverse. Come un mantra, queste parole riecheggiano di tanto in tanto mentre Holm tenta di penetrarne il senso più profondo. Interessante è il fatto che, di per sé, la frase in questione contiene già e anticipa in qualche modo tutte le idee che il documentario suggerisce sul complesso e straordinario mestiere del tradurre: citiamo dai sottotitoli italiani, “Non esiste il testo perfetto, così come non esiste la disperazione perfetta”. Un vero e proprio manifesto racchiuso in poche parole.

Chiunque fra i colleghi decida di seguire il nostro consiglio e guardare il documentario, non potrà poi non riconoscersi e sorridere davanti alla scena dove Mette Holm è alle prese con un passaggio di difficile traduzione, in cui uno dei personaggi gioca a flipper: dopo essersi arrovellata su come rendere un verbo che descrive un effetto acustico, decide che l’unico modo di venirne a capo è fare esperienza in prima persona di quel passatempo in apparenza semplice. La ritroviamo così in un bar dotato di flipper, mentre armeggia con l’apparecchio sotto la guida del titolare del locale, per capire la meccanica e il funzionamento del gioco mentre ascolta con attenzione i suoni e i rumori prodotti dalla pallina che colpisce gli ostacoli, osservando le luci che di tanto in tanto lampeggiano. Tutto per riuscire a riprodurre nella sua lingua, nel modo più preciso possibile, l’esperienza fisica che Murakami descrive in giapponese. In un altro momento vediamo Holm incontrarsi con un vecchio compagno di studi per chiedere il suo parere su alcuni brani della traduzione. Chi di noi non ha mai dovuto chiedere un parere esterno su ciò che ha tradotto, o l’aiuto di un collega/amico/conoscente esperto della materia di cui tratta il testo?

Alcune scene, al di là del sentimento di “sana invidia” che ci hanno provocato – è evidente che la traduttrice si trova in una situazione privilegiata -, mostrano come nella nostra professione esistano buone pratiche a cui, troppo spesso chiusi nel nostro studio o ufficio, non avevamo mai pensato. Un esempio fra tutti è la scena in cui Mette Holm incontra – e dal tono familiare si direbbe che non è la prima volta – alcuni dei suoi omologhi, i traduttori di Murakami verso altre lingue, come il norvegese, il tedesco e l’inglese. Attorno a un tavolo e davanti a una tazza di tè, i traduttori, utilizzando l’inglese come lingua franca, si confrontano sui problemi che stanno incontrando nella traduzione dell’ultimo romanzo e li vediamo scambiarsi punti di vista e suggerimenti utili. Ribadiamo che si tratta di una situazione ideale, ma tutti noi, nella nostra quotidianità, ci confrontiamo con colleghi anche di altre lingue ed è innegabile che un tale scambio ci arricchisca sempre e che a volte conoscere le soluzioni adottate in altre lingue ci sia di ispirazione.

Altro approfondimento interessante è quello che riguarda il rapporto fra traduttori e casa editrice. In Dreaming Murakami vediamo quanto questo sia stretto, a tal punto che Mette Holm viene interpellata al momento di decidere la copertina più adatta per il romanzo. Può darsi che si tratti di un caso particolare, per cui la sua opinione ha un peso privilegiato in virtù di una lunghissima corrispondenza con l’autore, ma è comunque un episodio che denota un’alta considerazione della figura della traduttrice che, da quanto ci sembra di capire, dispone anche di tempi piuttosto comodi per svolgere il suo lavoro e le sue ricerche al meglio. Ahinoi, temiamo che in Italia le cose siano un po’ diverse: certo però non guasta sapere a cosa si può aspirare e sognarlo a occhi aperti è il primo passo per avvicinarsi alla meta.

La traduzione e il silenzio

Un’ultima considerazione sul processo insondabile della lettura profonda – e quindi della traduzione – che porta ai lettori di un’altra lingua e cultura qualcosa del mondo, spesso distante e incommensurabile, dell’autore. Mentre vediamo Holm viaggiare di continuo fra la Danimarca e il Giappone, che sono i due volti della sua identità, una voce fuori campo ci fa riflettere: se un giorno, in seguito a una crisi planetaria, i facili spostamenti aerei a cui siamo ormai fin troppo abituati non dovessero più essere accessibili, la lettura della letteratura straniera sarebbe una delle poche chiavi rimaste per conoscere altri mondi.

Ma la metamorfosi della traduzione non potrebbe compiersi senza l’altro grande suo protagonista, il silenzio. Sì, perché questo è anche un film sul silenzio, che ne forma per ossimoro la colonna sonora, e sulla lentezza necessaria per produrre una buona traduzione letteraria: il silenzio della solitudine – che non equivale a isolamento -, verso cui ogni persona che traduca per vocazione si sente attratta, almeno per alcune ore al giorno. Il lungo silenzio della concentrazione, interrotto a intervalli regolari dal ticchettio delle dita sulla tastiera. Il silenzio meditativo delle passeggiate e dei viaggi da soli, così necessari per tornare all’opera con occhi nuovi e idee fresche per risolvere i problemi. Dreaming Murakami ci mostra la funzione essenziale delle pause e dei silenzi, senza cui il linguaggio e la comunicazione non potrebbero esistere, e sul piano esistenziale ci fa riflettere sull’indispensabilità di rallentare il ritmo, di ricavare momenti di sospensione all’interno della frenesia di ogni giorno, per poter mantenere chiarezza mentale e distacco.

Un tributo consapevole

In sintesi: un film incantevole, commovente, illuminato. Ci piace chiudere con le parole del regista di questo importante tributo alla nostra professione – la traduzione dall’inglese è nostra:

“Ripenso a tutte le opere tradotte che ho letto nella mia vita, e con questo film voglio ringraziare i traduttori, perché con il loro lavoro mi hanno fatto comprendere che la realtà è molto più complessa di come si presenta ai nostri occhi. Li ringrazio perché il frutto del loro lavoro ci fa toccare con mano la quantità di cose che tutti noi esseri umani, al di là dei continenti e delle lingue, condividiamo e abbiamo in comune. Nel nostro mondo, che è fatto di tanti mondi, l’arte della traduzione letteraria è un prisma attraverso il quale possiamo vederci riflessi nelle storie di altri, lontani”.

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1 Commento
  • Stefania Bua
    Pubblicato alle 18:00h, 16 Luglio Rispondi

    Che bello!
    Mi avete fatto venire una voglia matta di vedere il documentario!

    “Nel nostro mondo, che è fatto di tanti mondi, l’arte della traduzione letteraria è un prisma attraverso il quale possiamo vederci riflessi nelle storie di altri, lontani”….magia.

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