Intelligenza artificiale e nuove tecnologie: una minaccia per traduttori e interpreti?

21 Apr Intelligenza artificiale e nuove tecnologie: una minaccia per traduttori e interpreti?

di Elisabetta Zoni

 

Secondo un recente studio americano, il 41% degli intervistati teme di perdere il proprio lavoro nei prossimi 5-15 anni a causa dell’automazione, della robotica e, soprattutto, dell’intelligenza artificiale, quella branca della tecnologia informatica che mira a riprodurre i processi mentali più complessi mediante l’uso di software.

I più preoccupati sono i lavoratori dell’editoria, fra cui ci siamo anche noi traduttori. Del resto i professionisti della traduzione che lavorano in altri settori, soprattutto tecnico-scientifici, si trovano già da alcuni anni a fare sempre più spesso i conti con l’automazione, ricevendo dai clienti testi pre-tradotti automaticamente, su cui quindi viene richiesto non un lavoro di traduzione ex-novo ma di editing. Tutti i traduttori sono quindi, alla lunga, destinati a trasformarsi in revisori/editor?
Non a caso il post-editing e la revisione stanno diventando oggetto di studi specifici, come dimostra un convegno che si è svolto il 7 aprile scorso all’Università di Bologna, Campus di Forlì, nell’ambito dei Master’s in Specialized Translation, che ha ospitato diversi interventi sull’argomento.

Pesci o interpreti?

Come spesso avviene nel caso delle nuove tecnologie, il software che potrebbe in futuro sostituire gli interpreti viene dalla ricerca militare USA e, curiosamente, ricorda il Pesce di Babele, il traduttore universale descritto da Douglas Adams nella sua “Guida galattica per autostoppisti”. Il suo nome è Bolt – Broad Operational Language Translation – e combinerà tecnologie di riconoscimento vocale analoghe a Siri della Apple, Home di Google o Echo di Amazon, di comprensione del linguaggio naturale e di traduzione automatica per consentire ai militari americani di condurre conversazioni informali con gli abitanti dei paesi in cui svolgono le loro operazioni, senza bisogno di impararne la lingua, né di ingaggiare mediatori linguistici umani. Il progetto è stato avviato nel 2011 dalla Darpa, Defense Advanced Research Projects ed è stato affidato alla IBM che si è impegnata a consegnare, nel 2021, un nuovo sistema di traduzione automatica per ottenere risultati migliori rispetto a quello sviluppato fra il 2005 e il 2010, il TransTac: testato in Iraq e in Afghanistan, ha dato risultati insoddisfacenti, quando non addirittura controproducenti, dal punto di vista comunicativo. C’è dunque da augurarsi che il nuovo Bolt automatico non ottenga gli stessi devastanti effetti del Babelfish, a cui pure sembra ispirarsi: 

“Il povero Babelfish, avendo eliminato le barriere che impedivano alle varie razze e civiltà di comunicare tra loro, ha provocato più guerre sanguinose di qualsiasi altra cosa nella storia della creazione”.

Senza lanciarsi in previsioni su tecnologie ancora a venire, già oggi si può constatare come si inizi a fare a meno, se non dell’interprete stesso, della sua presenza fisica, con l’introduzione di software come Tywi, che riducono i costi del personale consentendo una traduzione simultanea a distanza su piattaforme di videoconferenza come Skype, WebEx o Adobe Connect. 

La traduzione neurale

Tornando alla traduzione, fino all’anno scorso anche i migliori servizi online, primo fra tutti Google Translate, producevano testi che non si allontanavano di molto dall’incipit della Genesi nella versione inglese della Bibbia di Re Giacomo, tradotto in spagnolo dall’applicazione di AltaVista (il cui nome è, guarda caso, Babel Fish), che Umberto Eco propone all’inizio del suo saggio “Dire quasi la stessa cosa” (2003, pp. 30-35) per spiegarci come mai il computer non sa tradurre.
Il settimanale culturale Pagina99 ha dedicato la sua rubrica Idee dell’8 aprile scorso al tema della traduzione automatica e dell’intelligenza artificiale, presentandoci una traduzione alquanto goffa dal francese all’italiano di due passi tratti dalla serie di romanzi della Recherche di Marcel Proust, realizzata con Google Translate.

La frase «Je voulais poser le volume que je croyais avoir encore dans les mains et souffler ma lumière» (Volevo posare il volume, che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul mio lume), si trasforma in un quasi incomprensibile «volevo chiedere il volume che ho immaginato, era ancora nelle mani e soffiare la mia luce».

Se questo esempio può strappare a noi traduttori un sorriso non privo di sollievo, molto meno rassicurante è ciò che leggiamo in un’altra sezione della stessa rubrica, cioè che lo stesso Google Translate, per altre combinazioni linguistiche, ha compiuto un notevole salto di qualità alla fine del 2016: è stato infatti dotato di un nuovo motore che ricrea la comunicazione umana, quindi anche la traduzione, non più (solo) tramite modelli statistici, regole predeterminate e algoritmi, ma attraverso una rete che mima il funzionamento dei neuroni. È la cosiddetta neural machine translation, ultima frontiera della traduzione automatica. Proviamo a tradurre la stessa frase dal francese all’inglese e l’esito non sarà perfetto ma decisamente migliore:

«I wanted to put the volume that I thought I still had in my hands and blow my light».

La rete neurale assume come unità di traduzione non la parola ma la frase, o il paragrafo, considerando quindi il contesto intorno alle parole. Oltre al confronto statistico fra database di traduzioni già svolte, sfrutta però (ed è questa la novità) un meccanismo di autoapprendimento che le consente di dedurre in modo autonomo le regole, anziché riceverle dall’esterno, dai programmatori: l’esito è un testo più scorrevole e vicino al parlato umano naturale. L’autoapprendimento permette anche alla rete neurale di sviluppare una propria interlingua profonda alla base delle diverse lingue. Lo si può dedurre dal fatto che è in grado di tradurre in modo accettabile anche fra due lingue non formalmente collegate. Questo significa che la rete neurale è in grado di formare una rappresentazione semantico-concettuale che va al di là delle lingue particolari e quindi di stabilire equivalenze fra parole e frasi di idiomi diversi. In altri termini, una forma embrionale di processo cognitivo… I computer iniziano a pensare?

Per le coppie di lingue in cui la traduzione neurale è già attiva, come appunto En-Fr, la qualità delle traduzioni è in effetti notevolmente migliorata. Google sostiene che il margine di accuratezza vada da un minimo del 58% nel caso di traduzioni dall’inglese al cinese, a un massimo dell’87% dall’inglese allo spagnolo.
Prendiamo allora un altro passo di Proust, un po’ meno espressivo e più aforistico, tratto da La Prisonnière:

“Quand on travaille pour plaire aux autres on peut ne pas réussir, mais les choses qu’on a faites pour se contenter soi-même ont toujours une chance d’intéresser quelqu’un”. (Quando si lavora per piacere agli altri si può non riuscire, ma le cose fatte per gratificare se stessi hanno sempre qualche probabilità di piacere a qualcuno). Proviamo a tradurlo in inglese con Google Translate e il risultato sarà piuttosto sorprendente: “When you work to please others you may not succeed, but the things you have done to satisfy yourself have always a chance to interest someone.”

Il fattore umano

Nonostante questi grandi passi avanti, l’obiettivo di sostituire del tutto i traduttori umani con i robot neurali, specie nel caso della traduzione editoriale, appare ancora lontano. Nei testi in cui prevale la funzione espressiva/estetica (letteratura, testi con un alto grado di creatività, discorsi pubblici), dove cioè è essenziale lo stile personale di un autore, o dove predomina la funzione di appello al destinatario (pubblicità, slogan, discorsi), o ancora in qualsiasi testo legato a una particolare sub-cultura, anche linguistica (ad esempio il lessico dell’inglese di Sydney non è lo stesso di quello di Vancouver o Dublino), è assai difficile immaginare una forma di traduzione automatica, anche neurale, che possa sostituire del tutto l’essere umano.

Il fattore umano è essenziale, nella traduzione come nell’interpretazione, anche nell’analisi del testo, che permette di rilevare tutta una serie di caratteristiche di cui è necessario essere consapevoli per produrre una traduzione efficace e accurata: modi di dire, ritmo delle frasi, connotazioni e associazioni di idee, allusioni, scelta di alcune parole piuttosto che di altre per parlare di un certo tema, metafore e riferimenti intertestuali: insomma quel sottotesto invisibile e non quantitativamente rilevabile che soggiace a ogni testo originale e rimanda a un particolare modo di pensare e di concettualizzare la realtà, ma anche al mondo esterno, alla cultura materiale. Il linguaggio è una forma di comunicazione umana e come tale è dinamico proprio perché incarnato, calato in un corpo fisico che vive in osmosi con il mondo esterno e con le menti di altri individui e gruppi di individui; ed è proprio su questo processo comunicativo osmotico, sull’interazione e sull’esperienza, che si forma e si espande l’intelligenza umana. La comunicazione incarnata genera quella che in senso lato definiamo conoscenza enciclopedica che le macchine non possiedono.

Come ha scritto in maniera memorabile l’autrice Eva Hoffman nella sua autobiografia di esule polacca in Canada, intitolata appunto “Lost in translation” (1989):

“In order to transport a single word without distortion, one would have to transport the entire language around it. […] In order to translate a language, or a text, without changing its meaning, one would have to transport its audience as well”. (Per trasportare una singola parola senza distorsioni, si dovrebbe trasportare l’intera lingua che la circonda […]. Per tradurre una lingua, o un testo, senza cambiarne il significato, si dovrebbero trasportare anche i suoi destinatari” pp.272-273)

Terminiamo su questa riflessione e su due ultimi esempi proustiani, tradotti sempre in inglese con il nuovo sistema. La prima frase, tratta da La Prisonnière, mostra come Google Neural Machine Translation non colga – e quindi non riproduca – i nessi sintattici non appena l’autore si discosta dalla struttura standard:

“Les choses dont on parle le plus souvent en plaisantant sont généralement celles qui ennuient, mais dont on ne veut pas avoir l’air ennuyé.” (Le cose di cui si parla più spesso scherzando sono di solito quelle che annoiano, ma da cui non si vuole mostrare d’essere annoiati): “The things most often talked about joking are usually those that bore, but you do not want to look bored.” (joking dovrebbe figurare in forma avverbiale, jokingly, mentre dopo “bored” manca la preposizione “about”).

La seconda frase è tratta da Albertine disparue e parla della separazione, mai serena, in un rapporto d’amore:

«Il est vraiment rare qu’on se quitte bien, car si on était bien, on ne se quitterait pas» (È veramente raro che ci si lasci bene, perché se si stesse bene non ci si lascerebbe). L’inglese risulta decisamente opaco e travisa il senso: «It is very rare that we leave well, because if we were good, we would not leave».

Come si può vedere, la rete neurale non ha ancora imparato a riconoscere il contesto del rapporto affettivo, che invece qualsiasi umano coglierebbe subito, e non riesce pertanto ad attribuire il giusto valore semantico a sintagmi come “être bien” e “se quitter”. Se questo, per un verso, accende qualche speranza soprattutto nei traduttori letterari, dall’altro può forse indurre loro – e in generale gli autori – a tutelarsi scrivendo in modo più originale, personale e meno omologato e standardizzato, proprio per sfuggire alla minaccia di essere decodificati e alla lunga soppiantati dal cervello artificiale. Sarebbe senz’altro preferibile prendere questa strada piuttosto che quella opposta, muovendosi verso un linguaggio unico, sempre meno diversificato e sempre più somigliante a ogni latitudine, sotto l’influsso della traduzione automatica.

4 Commenti
  • Ana María Pérez Fernández
    Pubblicato alle 14:07h, 29 Aprile Rispondi

    Ottimo articolo e molto ben scritto. Complimenti

  • irene
    Pubblicato alle 09:25h, 02 Maggio Rispondi

    Bellissimo articolo Elisabetta!

  • Marzia Agnetti
    Pubblicato alle 18:59h, 10 Maggio Rispondi

    molto interessante

  • TradinFo
    Pubblicato alle 13:12h, 21 Maggio Rispondi

    Ci uniamo ai complimenti per l’interessante approfondimento di Elisabetta!

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