
20 Feb L’egemonia dell’aziendalese, dagli uffici alla vita quotidiana: riflessioni sparse
di Elisabetta Zoni
Lo incontriamo ormai in quasi tutti i generi e i contesti della comunicazione scritta e orale. Spesso le sue espressioni suonano oscure alle orecchie dei destinatari, eppure la sua presenza è così pervasiva da arrivare a condizionare la nostra stessa forma mentis: è l’aziendalese, un misto di gergo aziendale italiano e inglese, linguaggio burocratico e terminologia tecnologico-scientifica.
Un ibrido fra linguaggio burocratico, gergo tecnico e anglismi
L’aziendalese trae il suo nutrimento per lo più dal cosiddetto burocratese, dalla lingua inglese e dalla terminologia tecnologico-scientifica.
È zeppo di tecnicismi come interfacciarsi o monitorare, che per lo più sono anche forestierismi, quasi sempre prestiti integrali dall’inglese. Quest’ultimo dato rimanda a un’altra, più generale, vexata quaestio: il dilagare degli anglismi in ogni contesto linguistico. In particolare, oggetto di critica è la scelta, dettata a volte da semplice pigrizia, altre dal desiderio di apparire all’avanguardia o più professionali, di utilizzare parole ed espressioni inglesi anche quando esistono termini italiani equivalenti. Se, infatti, per marketing è difficile trovare una parola italiana congruente, che ne colga tutte le accezioni, per meeting ovviamente l’equivalenza esiste. Deadline potrebbe benissimo essere sostituito da scadenza. Idem dicasi per convention (congresso) e location (sede). In molti, invece, seguono la moda preferendo team leader o group head a capogruppo, feedback a risposta o riscontro, mission a obiettivo e vision a punto di vista. E così via, con anglismi tanto diffusi quanto superflui: report, best practice, competitor, problem solving, target. Vi è poi tutta una serie di ingombranti calchi dall’inglese, come approcciare, implementare, sinergia, finalizzato a. Uno degli effetti di quest’accumulazione di ‘inciampi’ linguistici è appunto quello di frenare l’immediata comprensione del testo, orale o scritto.
L’influsso del burocratese, la lingua giuridico-amministrativa, è evidente invece nella preferenza per le locuzioni preposizionali (con l’ausilio di, a mezzo di, nella persona di) rispetto alle preposizioni semplici. Lo è anche nella formulazione di lunghe perifrasi, che dilatano verbalmente un concetto altrimenti facile da sintetizzare: le determinazioni che abbiamo assunto = le decisioni prese. Ancora una volta, il risultato più evidente che si ottiene con l’uso di locuzioni prepositive e perifrasi, soprattutto al di fuori dell’ambito amministrativo-giuridico, è quello di complicare inutilmente la lettura o l’ascolto di un testo.
L’antilingua
L’aziendalese si avvicina a quella che Italo Calvino, in un suo scritto degli anni Sessanta, definisce antilingua, e che a sua volta è molto affine al concetto di burocratese, che citavo sopra.
Calvino definisce infatti l’antilingua come linguaggio astratto, enfatico e distaccato, che tende a frapporre una certa distanza fra il parlante e il contenuto del suo discorso. L’esempio proposto dall’autore è ormai divenuto un classico: il racconto di un testimone in questura è prima riprodotto letteralmente poi nella sua ‘traduzione’ in verbale da parte di un brigadiere. “Dietro la cassa del carbone” diventa così un grottesco “situato in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile”. Calvino osserva che la scelta di termini più formali, come effettuare o espletare al posto di fare, spersonalizza la comunicazione, ci fa parlare con una voce che non è la nostra, una sorta di gergo neutrale, sterilizzato e omologato. Beninteso, in alcuni casi una comunicazione più formale è necessaria, ma l’abuso dell’antilingua è sempre dietro l’angolo.
In conclusione al suo saggio, Calvino paventa la scomparsa dell’italiano “dalla carta linguistica d’Europa” se la spinta verso l’antilingua dovesse prevalere. Nella sua ipotesi migliore, l’italiano si svilupperà in due distinte direzioni: da un lato, lascia intendere Calvino, l’esigenza di una sempre più frequente comunicazione con le altre lingue lo porterà ad assorbire un numero crescente di tecnicismi, anche mutuati dalle altre lingue europee, fin quasi a trasformarsi in un’interlingua con scopi comunicativi di base e pratici. Un processo simile avverrà anche nelle altre lingue. Nell’italiano letterario, invece, “si distillerà l’essenza più peculiare e segreta della lingua, intraducibile per eccellenza, e di cui saranno investiti istituti diversi come l’argot popolare e la creatività poetica della letteratura”.
Il monopolio dell’inglese e l’atrofizzazione dell’italiano letterario
Quest’ultima previsione si è purtroppo rivelata fin troppo ottimistica: Calvino non immaginava fino a che punto il mercato editoriale, in futuro, si sarebbe orientato a logiche commerciali, tendenza che negli ultimi decenni ha condotto le case editrici a normalizzare ‘al ribasso’ la lingua degli autori, sempre più neutra e semplificata sul piano sintattico e lessicale: siamo insomma di fronte all’atrofizzazione di quella “creatività poetica della letteratura” che avrebbe dovuto nutrire l’italiano dei libri. Un’interessante riflessione in merito si può leggere in un articolo de L’Espresso, Italiano addio: per colpa del mercato la lingua letteraria è sempre più povera.
Ma una parte di quanto previsto da Calvino, soprattutto riguardo all’apporto di tecnicismi e forestierismi, si è in effetti avverata, anche se forse in modo un po’ diverso da quanto l’autore si aspettava: i forestierismi oggi sono onnipresenti, e in costante crescita, ma si tratta quasi esclusivamente di prestiti e calchi dall’inglese.
Credo che denunciare questo monopolio e tentare di intaccarlo, per quanto possa apparire impresa vana, non sia solo questione di identità culturale, né tantomeno di nazionalismo: si tratta di conservare la varietà, la biodiversità linguistica della nostra lingua, non meno necessaria di quella naturale.
In sostanza, a differenza di ciò che prefigurava Calvino, oggi non abbiamo un italiano comune semplificato e ibridato da una parte – e una ricca lingua letteraria dall’altra – ma una lingua letteraria sempre più povera e un italiano comune che per molti versi si sta avvicinando a un’antilingua: all’aziendalese, appunto. Mentre omologa la comunicazione, alla lunga l’aziendalese tende a anche a standardizzare la personalità stessa dei suoi parlanti: riducendo ai minimi termini l’espressività linguistica, appiattisce l’individualità e restringe la gamma di concetti, sensazioni e sentimenti che siamo in grado di concepire, sottraendo creatività e apertura mentale. Tutti, senza eccezione, siamo influenzati dall’aziendalese, e non sempre ci rendiamo conto di quanto ne siamo compenetrati, persino noi che con la lingua lavoriamo per professione.
L’aziendalese come forma mentis
Perché ormai non solo parliamo e scriviamo, ma pensiamo in aziendalese. Più o meno dagli anni Ottanta a oggi abbiamo assistito a un’inarrestabile estensione del modello normativo aziendale, nei suoi aspetti linguistici e cognitivi, oltre che organizzativi e decisionali, dall’azienda in senso stretto a tutte le altre istituzioni – amministrazione pubblica, scuola e università, partiti politici – e alla stessa vita privata.
Tra le prime a riflettere su questo fenomeno è stata la filosofa morale Michela Marzano, in un suo illuminante saggio del 2009, Estensione del dominio della manipolazione. Dalla azienda alla vita privata. Utilità, convenienza, produttività, performance, e ancora competizione, concorrenza, leadership, e soprattutto management, gestione, sono alcuni dei cardini di questa onnipresente, pervasiva forma mentis. Riflettiamo, ad esempio, sulla mentalità utilitaristica: quella che in ogni idea, azione o spazio di vita ricerca sempre uno scopo pratico, e si domanda come possano essere utilizzati per produrre. Questo modo di ragionare, condizionato dall’utilità e dalla convenienza, è in realtà molto limitante e tende a soffocare la creatività, impendendo uno sbocco costruttivo al ragionamento e alla ricerca di una soluzione ai problemi.
Particolarmente insidioso, poi, è il concetto di gestione, applicato non più solo a beni e ricchezze, ma anche alle persone, che vengono definite, con una sorta di oggettivazione, risorse umane. Addirittura la vita privata va gestita, magari con l’aiuto di un life coach, un manager della vita, appunto. Si gestiscono lo stress, i conflitti, persino le relazioni affettive, con l’aiuto di precise strategie che possono ad esempio comportare la diversificazione degli investimenti affettivi, in modo non dissimile da quanto faremmo con un portafoglio azionario. Il problema, in questo caso, è che il gestire comporta sempre una forma di controllo, e che controllare la propria vita privata è possibile, o anche auspicabile, solo fino a un certo punto. La mentalità aziendalistica, al contrario, tende a caricare l’individuo di un’eccessiva, perché irreale, responsabilità per i suoi successi ma anche per i suoi fallimenti, minimizzando al contempo il ruolo dei fattori esterni, legati al caso ma anche alle strutture sociali ed economiche in cui ci si trova ad operare.
Il punto di vista di traduttori e interpreti
Per concludere vorrei ricondurre la mia riflessione alla sfera d’influenza di chi, come noi traduttori e interpreti, per mestiere si trova tutti i giorni a manipolare le strutture linguistiche, specie in ambiti non tecnici: in che modo quanto detto sopra ci interroga, o sollecita il nostro senso di responsabilità? Quanto è ampio il margine di scelta di cui disponiamo per sottrarci al predominio del linguaggio e del pensiero aziendale? Dite la vostra.
Serena
Pubblicato alle 18:04h, 21 FebbraioGrazie Elisabetta, riflessione molto interessante! Si sente spesso parlare un italiano infarcito di anglicismi non necessari che, oltre ad essere una lingua un po’ goffa e a tratti surreale, porta ad una complicazione delle cose semplici perché una parte dei destinatari del messaggio che non conoscono l’inglese potrebbero, giustamente, non coglierlo appieno: perché non usare le parole della nostra lingua, così musicale e affascinante? Il traduttore e l’interprete, tenendo conto delle consuetudini d’uso, dovrebbero attingere il più possibile dalle risorse che ha la nostra bellissima lingua
Elisabetta Zoni
Pubblicato alle 22:53h, 25 FebbraioGrazie a te, Serena. Sì, è giusto che noi linguisti, per primi, diamo l’esempio tornando a utilizzare con proprietà, precisione e, per quanto possibile, creatività, la nostra lingua, che ha un lessico ricchissimo: si calcola che solo le unità lessicali (forme non flesse) si aggirino su una cifra che va da 215 a 270.000… tempo quindi di tornare ai cari vecchi vocabolari, che oltretutto oggi, in formato elettronico, sono più comodi che mai da consultare: non abbiamo scusanti!
Laura Gervasi
Pubblicato alle 15:47h, 23 FebbraioTutto (tristemente) verissimo!!! Essendo costantemente in contatto, per lavoro e non, con persone che lavorano in grandi aziende dove prevale l’uso indiscriminato di anglicismi, potrei portare un bel po’ di esempi, alcuni dei quali devo dire davvero esilaranti o irritanti, a seconda dei casi… potremmo lanciare un “sondaggio” colleghi: “qual è il più buffo/inutile/agghiacciante che avete sentito”?
Personalmente, ciò che mi infastidisce di più è quando la parola inglese viene utilizzata solo per darsi delle arie o perché non ci si vuol sforzare di cercare la parola più adeguata in Italiano, quei casi ben noti a tutti, citati anche da Elisabetta, sulla scorta di “schedulare”,… non credo insomma che la modernità, la globalizzazione e l’internazionalizzazione delle attività imprenditoriali debbano necessariamente implicare un impoverimento della nostra lingua. Cosa ancor più preoccupante, credo che un impoverimento linguistico alla lunga porti anche a un impoverimento ideologico, sentimentale, emotivo. Qui gli inglesi direbbero che sono un po’ “naif”, per rimanere in tema, ma credo che le parole “diano un posto” alle cose del mondo, quelle concrete come quelle astratte, e solo la parola rende i concetti astratti condivisibili e comprensibili per l’altro. Quando perdiamo le parole, con tutte le loro sfumature di significato, perdiamo la possibilità di descrivere, farci capire, condividere. Non sono mai stata d’accordo con quelli che dicono che le parole non contano, che contano i fatti o il buon cuore!!! Le parole sono importantissime!!!!
Credo che chi, come noi, ha scelto di fare delle parole la materia del proprio lavoro, debba far anche aprire un po’ gli occhi agli altri quando sentiamo delle storpiature che proprio non hanno ragion d’essere o ci accorgiamo di un certo appiattimento purtroppo diffuso (cercando di non risultare antipatici chiaramente!)..
Grazie Elisabetta per i tuoi articoli sempre così stimolanti e puntuali.
Laura
Elisabetta Zoni
Pubblicato alle 23:10h, 25 FebbraioMolte grazie a te, Laura, per il tuo approfondimento. Buona idea quella del sondaggio, è un modo per aumentare la consapevolezza sul problema… divertendosi!
Sono anch’io convinta che preservare e coltivare la richezza e la diversità del paesaggio linguistico in cui viviamo, proprio come quelle del paesaggio in senso stretto, sia sinonimo di vitalità culturale, e di flessibilità mentale. Ce n’è un gran bisogno proprio oggi.
Per cui sì, è giusto non sottovalutare la capacità che ciascuno di noi ha, come professionista della traduzione/interpretazione, di contribuire a un'”ecologia” di questo paesaggio.