Networking e formazione: ecco TradPRO visto da TradInFo

Networking e riflessioni: ecco TradPRO visto da TradInFo

09 Mag Networking e formazione: ecco TradPRO visto da TradInFo

a cura di Francesco D’Arcangeli

Domenica 7 aprile 2018 si è svolta a Pordenone la prima edizione del convegno TradPro, una giornata di formazione e networking per i traduttori e i professionisti delle lingue. È stata una giornata molto ricca e significativa, unica nel suo genere.

Nel nostro settore le giornate di formazione appartengono in genere a due categorie, se consideriamo il contenuto:

  • giornate tecnico-pratiche, dove si parla di risorse specifiche o di tecniche e consigli pratici;
  • giornate scientifico-teoriche, focalizzate sulla lingua o la traduzione da un punto di vista più accademico.

TradPRO è stato entrambe: una prima parte più pratica e una seconda più teorica. Trovo questa idea molto valida, oltre che realizzata molto bene.

La scelta della città: Pordenone

Eleonora Cadelli e Francesca Casali hanno fatto un lavoro eccezionale. Unire oratori di prim’ordine in una cornice come l’Hotel Moderno e soprattutto nella splendida città di Pordenone è stata una scelta vincente.
Pordenone è una piccola gemma però, per usare le parole delle organizzatrici, “se non ci abiti difficilmente avrai altre occasioni di visitarla e apprezzarla!”.
E proprio per consentire a noi visitatori di verificare quanto questo fosse vero, Eleonora e Francesca con alcuni partner istituzionali pordenonesi ci hanno regalato una piccola gita nel centro della città prima del convegno. Un ottimo inizio.

Presentiamo ora uno ad uno gli interventi, insieme ad alcune brevi riflessioni personali.

Gli interventi

 

Chiara Zanardelli – La ricerca del cliente diretto

Ho definito quello di Chiara Zanardelli come uno dei migliori interventi mai ascoltati sul nostro mestiere. Non stavo esagerando e già il titolo potrebbe portarvi a capire perché. Per molti traduttori il cliente diretto è a metà tra l’oasi nel deserto, il Sacro Graal e una copia autentica e certificata di The Winds of Winter, appena scritta da George R. R. Martin.

La cosa bella di questo intervento, tuttavia, nasce da una semplice domanda: Siete sicuri di voler trovare un cliente diretto?
In questo sta l’autentica genialità: fare presenti gli svantaggi che un cliente diretto presenta rispetto ad un’agenzia, ossia:

  • il traduttore deve occuparsi anche di cose di cui di solito si occupa l’agenzia: preventivo e negoziazione in primis, gestione dei solleciti e comunicazione col cliente, ma anche customer education, cioè la spiegazione di una serie di cose – specie se è un cliente ai suoi primi approcci con la traduzione -. Tutte attività che portano via tempo e alla fine potrebbero rendere la tariffa maggiorata che proponiamo inadeguata al carico di lavoro in più;
  • dire di no è un problema. Per un’agenzia, un traduttore che rifiuta un lavoro è un imprevisto perché ce ne saranno altri a cui affidare lo stesso testo. Per un cliente diretto, però, il rifiuto del traduttore è una cosa ben diversa: il cliente ci chiede di risolvere un problema, ossia il testo da tradurre, ma non prendendoci carico di questo compito rischiamo di accresce il problema stesso;
  • il cliente va fidelizzato: bisogna mantenere una comunicazione continua, capire se necessiti di servizi in più – tutte cose che l’agenzia fa senza che noi ce ne accorgiamo.

Bisogna quindi chiederci se siamo davvero portati per tutto ciò. Una volta stabilito che il cliente diretto ci interessa è il momento di definire il target.
Chi è il nostro cliente ideale? La prima cosa a cui dobbiamo pensare è la specializzazione, il settore di lavoro. Di certo dovremo proporci in un settore che conosciamo bene e in cui siamo bravi, eppure può non bastare e dovremo considerare anche questi fattori:

  • disponibilità economica: quanto si guadagna, in altre parole? Sì ci piace, ok siamo bravi, ma se pagano troppo poco non ne vale la pena;
  • potenziale di crescita: è un settore in cui pagano bene ma sta morendo/ristagnando? O è invece un settore in cui per ora pagano meno bene ma è in crescita?
  • bisogni particolari del cliente o del settore: ce ne sono di molteplici, ad esempio la presenza in un settore attivo in orari e periodi scomodi, o ancora che richiede presenza in loco.

La cosa migliore da fare per inquadrare il target è cercare di ispirarsi o basarsi su una persona reale, qualcuno che conosciamo o con cui abbiamo lavorato magari. In questo modo possiamo anche capire che rapporto ha, ad esempio, con i social, come comunica e via dicendo.

Abbiamo stabilito il perché e il chi. È il momento di passare al come, cioè ai canali di promozione.

Da un sondaggio svolto tra i traduttori per capire le dinamiche alla scoperta del cliente diretto, sono emersi dati interessanti che però secondo l’autrice stessa e il pubblico in sala non vanno considerati universali perché possono essere diversi a seconda del settore.

Uno dei canali più frequenti è il passaparola, cioè gli amici e i conoscenti (38%). I frutti di questo mezzo sono piuttosto occasionali e non è semplice programmare una strategia se non l’essere pronti a parlare del proprio lavoro e avere sempre il biglietto da visita.
Il secondo canale è quello che si riferisce ai colleghi, quindi al networking (27%). Rispetto al passaparola puro è molto meno casuale: per sfruttarlo bisogna partecipare in modo attivo agli incontri dal vivo, lavorare con le associazioni – anche non specifiche di traduttori -, mantenere una mente aperta e non essere mai troppo polemici e chiusi al confronto. Il cliente che si trova con questi canali è spesso più inserito nel mondo della traduzione, ma non è detto.
Diverso il discorso per il canale che si riferisce ai portali del settore, come Proz, etc (13%). In questo caso vale la stessa raccomandazione consigliata per i colleghi: partecipare alla vita del portale, aggiornare il profilo e non creare problemi inutili. Il cliente che potremmo trovare, in questo caso, è uno che già conosce il mondo della traduzione almeno in parte e quindi potrebbe conoscere anche le tariffe.
Tra i canali citati c’è anche la candidatura spontanea (12%), cioè il contatto diretto. Qui la gamma dei clienti è molto ampia, ma bisogna seguire alcuni accorgimenti ben specifici: scegliere i destinatari con cura e avere cura di scrivere una email diretta e personalizzata allo specifico referente dell’azienda. Sconsigliato l’invio di un curriculum vitae – strumento dedicato al lavoro dipendente -, piuttosto preparare una brochure o una pagina web dedicata.
Altro canale possibile sono i social media/sito web (7%). In questo caso il successo dipende dal settore in cui operiamo: alcuni settori sono più tradizionali, altri sono più predisposti. Il sito web o la propria presenza social vanno curati con estrema attenzione, la nostra immagine va presentata come coerente con la realtà: chi digita il nostro nome deve già trovare qualcosa che gli dica che siamo dei professionisti. I social media sono comunque utili perché ci consentono di trasferire le relazioni dal virtuale al reale.
Vi sono infine alcuni canali usati molto poco: le fiere e gli eventi di settore (3%). Queste richiedono un notevole investimento in termine di tempo e denaro, non solo per la partecipazione all’evento ma soprattutto per la preparazione. Meglio ricorrervi solo se davvero è usato dal nostro cliente ideale. Inutilizzata la pubblicità cartacea (0%), che però può essere utile se si lavora con le realtà del territorio, soprattutto se ci si occupa di formazione. Anche i contatti attraverso i siti delle associazioni (0%) riscuotono poco successo, cosa che mi rammarica perché è un chiaro segno della scarsa visibilità di noi associazioni specie rispetto al mondo del lavoro. I contatti ottenuti attraverso questo canale sono senza dubbio contatti di clienti che conoscono il mondo della traduzione molto bene, perciò si aspettano qualità e competenza. È bene ricordare che non bisogna millantare competenze che non si hanno anche per evitare di screditare gli altri traduttori soci dell’associazione e l’associazione nel suo complesso.

Qualunque sia il canale scelto, è importante investire tempo nel modo giusto: non navigare a vista ma piuttosto leggere e ascoltare ciò che il target dice, promuoversi, informarsi, il tutto avendo molta pazienza e costanza. Cercare di non scoraggiarsi e non pretendere il successo immediato, ma continuare con una certa costanza nella promozione, a piccoli passi se necessario. Infine è necessario fare un bilancio semestrale per capire cosa abbiamo fatto, come lo abbiamo fatto e che risultati abbiamo ottenuto; il bilancio può non essere semestrale se nel settore che ci interessa le tempistiche sono diverse, ma va comunque fatto, per correggere se necessario la rotta.

Ho trovato questo intervento molto interessante perché, pur non pretendendo di dare tutte le risposte, fornisce un quadro piuttosto completo con uno stile divertente ma non dispersivo. Brava Chiara!

 

Martina Lunardelli – Sentirsi imprenditori e agire come tali

Uno dei leitmotiv della nostra professione è l’abitudine a definirci imprenditori di noi stessi. Ma che cos’è un imprenditore, esattamente? E quali sono le mosse da fare per essere davvero imprenditori? Martina Lunardelli sceglie di rispondere a questa domanda con un intervento elegante ma concreto al tempo stesso, inserendo nell’equazione un fattore importante: la vita offline, non solo online.
Per arrivare al cuore della questione si parte da due domande: “Che cos’è un imprenditore?” e “Chi sei tu?” Le risposte sono state delle più varie ed emerge che in un certo senso siamo tutti imprenditori: all’origine la parola “imprenditore” significava semplicemente “chi decide di intraprendere un’azione, svolgere una missione, personale o meno”. 
Ma se lo siamo tutti, quali sono le caratteristiche più salienti ed evidenti? Cosa ci rende imprenditori? La risposta risiede nella capacità di pensare a noi stessi come delle vere e proprie aziende, spesso aziende di una sola persona, flessibili e malleabili ma che devono saper gestire tutto insieme nel modo giusto.

Dobbiamo non solo riuscire a capire cosa vogliamo, ma riuscire anche a farlo capire agli altri. “Il miglior biglietto da visita sei tu”: il biglietto da visita vero e proprio è solo lo strumento che contiene i dati per contattarci ma non serve a niente se non rispecchia un’immagine reale e coerente, sia offline che online. Da questo emerge un altro consiglio: online e offline racconta sempre la veritàNon millantiamo online cose che non facciamo offline. Le bugie non sono solo eticamente sbagliate, sono anche dannose per la reputazione.

Detto questo, poiché “online” oggi vuole dire anche e soprattutto “social media”, ne segue un altro importante consiglio: la vostra immagine social deve essere reale, non solo coerente ma realistica e vera, ricollegabile a noi stessi, alla nostra persona e alla nostra impresa. All’atto pratico questo, tra le altre cose, vuol dire usare sempre la stessa foto su tutti i social, possibilmente usando una foto professionale o comunque eseguita correttamente.

E visto che si è parlato di coerenza tra online e offline, ricordiamo anche che i social media non bastano, si deve partecipare ad eventi sociali realiGli eventi reali servono per costruire contatti, consolidare le relazioni, mostrare la coerenza della nostra immagine online con quella reale. Per eventi sociali inoltre non si intendono solo quelli da traduttori, ma qualsiasi cosa faccia parte delle nostre aree di interesse.

Bisogna poi investire tempo e denaro in ogni aspetto della nostra “impresa”, dall’immagine alla formazione professionale. E bisogna investire bene. Vogliamo che il nostro cliente contatti noi in quanto professionisti e così dobbiamo fare: se ci serve un sito, un servizio fotografico, un restyling del nostro ufficio meglio chiedere a un professionista e non improvvisare. Non dimentichiamo anche di prendere delle precauzioni, ad esempio stipulando un’assicurazione professionale.

In ultima analisi si tratta di mantenere attive le relazioni ma anche le sinapsi, evitando di chiuderci in noi stessi ricordando che a volte anche le strade nuove e inesplorate possono aiutare la nostra impresa. 

L’intervento si chiude ricordando che per diventare buoni imprenditori serve cuore, testa, fegato ma anche un pizzico di fortuna.

Ho trovato questo intervento non solo utile, centrato e molto motivante, ma davvero ben fatto, elegante e mai troppo aggressivo.

 

Alberto Rossetti – Analisi e novità dei regimi fiscali per lavoratori autonomi

La prima parte della giornata si chiude con l’intervento del commercialista Alberto Rossetti che si occupa dei diversi regimi fiscali disponibili ai professionisti e quindi anche ai traduttori. I regimi fiscali sono tre: ordinario, forfettario e regime dei minimi. Quest’ultimo è stato ormai soppresso ma resta in vigore per chi lo aveva scelto entro il 2015.

Regime Forfettario

La novità principale per i lavoratori autonomi è il nuovo Regime Forfettario, che presenta alcune condizioni: reddito lordo inferiore a 30.000 euro per i traduttori, mancato superamento di 5.000 euro per i collaboratori e ammortizzamento per beni strumentali superiore a 20.000 euro lordi. Questo regime presenta una serie di vantaggi:

  • aliquota fissa del 5% per le nuove imprese con meno di 5 anni di vita e del 15% successivamente
  • niente IVA sulle operazioni attive
  • nessun obbligo di scritture contabili
  • esclusione da IRAP e studi di settore
  • esclusione dalla ritenuta d’acconto
  • durata illimitata a condizione che si continui a rispettare i requisiti
  • nessun cumulo del reddito con altre fonti: il reddito da lavoro autonomo resta tassato al 5/15%

Il regime presenta però anche degli svantaggi:

  • non si può superare il limite dei ricavi annui;
  • non è possibile detrarre l’IVA dagli acquisti;
  • si deve pagare l’IVA (alla fonte o versandola) sui lavori fatti con clienti esteri;
  • non si hanno deduzioni e detrazioni per le spese personali (medico o altro);

Inoltre non solo non si possono detrarre le spese personali, ma anche quelle relative all’attività sono detraibili solo in parte. In pratica possiamo detrarre il 22% delle spese sostenute per l’attività: la soglia del 22% è per i traduttori ma per altre attività è diversa, quindi bisogna ragionare su quali siano le nostre spese e se ne valga la pena. In generale si può dire che questo regime è consigliato per attività con costi esigui e sconsigliato per attività con costi più elevati.

Nell’ambito del regime dei minimi nel 2017 ci sono anche altre novità:

  • riduzione dell’aliquota Inps gestione separata a partire dall’anno 2017
  • soppressione dei modelli Intra acquisti trimestrali
  • obbligo di fatturazione elettronica per i carburanti dal 1 luglio 2018
Regime dei minimi

Anche se il regime dei minimi è stato abolito, viene comunque esaminato per vederne le caratteristiche principali. I vantaggi sono questi:

  • aliquota fissa del 5%
  • niente IVA sulle operazioni attive
  • nessun obbligo di scritture contabili
  • esclusione da IRAP e studi di settore
  • esclusione dalla ritenuta d’acconto
  • nessun cumulo del reddito con altre fonti: il reddito da lavoro autonomo resta tassato al 5%
  • beni strumentali (spese dell’attività) deducibili al 100%
  • beni ad uso promiscuo deducibili al 50%

Il regime presenta però anche degli svantaggi:

  • non si può superare il limite dei ricavi annui;
  • non è possibile detrarre l’IVA dagli acquisti;
  • si deve pagare l’IVA (alla fonte o versandola) sui lavori fatti con clienti esteri;
  • non si hanno deduzioni e detrazioni per le spese personali (medico o altro);

Per quanto riguarda le novità fiscali abbiamo invece, per il regime dei minimi, degli elementi in più rispetto al forfettario:

  • riduzione dell’aliquota Inps gestione separata a partire dall’anno 2017
  • soppressione dei modelli Intra acquisti trimestrali
  • riduzione del super ammortamento dal 140% al 130% dall’anno 2018
  • esclusione del super ammortamento per i beni ad uso promiscuo dall’anno 2018
  • obbligo di fatturazione elettronica per i carburanti dal 01 luglio 2018
Regime ordinario

Il regime ordinario è quello che si applica in tutti i casi in cui non si applicano gli altri. Pur se più gravoso, presenta comunque dei vantaggi:

  • detraibilità dell’Iva sugli acquisti ad eccezione dei beni ad uso promiscuo
  • detrazione e deduzioni delle spese personali

A tutto questo però corrisponde un carico fiscale ben più gravoso:

  • aliquota minima Irpef del 23% (a seconda del reddito) e applicazione delle addizionali
  • obbligo di tenuta delle scritture contabili e adempimenti dichiarativi
  • assoggettamento a studi di settore
  • cumulabilità con altre tipologia di reddito
  • deducibilità solo parziale dei costi relativi all’autovettura
  • deducibilità parziale dei costi di vitto e alloggio

Vi sono numerose novità fiscali anche per il regime ordinario:

  • spese di formazione interamente deducibili fino a Euro 10.000 dall’anno 2017
  • riduzione dell’aliquota Inps gestione separata dall’anno 2017
  • soppressione dei modelli Intra acquisti trimestrali
  • riduzione del super ammortamento dal 140% al 130% dall’anno 2018
  • esclusione del super ammortamento per i beni ad uso promiscuo dall’anno 2018
  • obbligo di fatturazione elettronica

Nel complesso ho trovato l’intervento di Alberto Rossetti interessante e utile.

Bruno Osimo – Knowhow linguistico, mediativo, semiotico

Bruno Osimo pone come punto di partenza del suo intervento una domanda: “Ha senso un approccio scientifico alla traduzione?” Ci si riferisce soprattutto a quella letteraria, anche se le tesi e le analisi di Osimo si applicano a qualsiasi tipo di testo.

In molti ritengono di no, alcuni perché forse sono seguaci del pensiero di Benedetto Croce che aveva, per gli uomini di scienza e per le scoperte scientifiche parole tutt’altro che gentili: i primi sono definiti, infatti, “l’incarnazione della barbarie mentale” e le seconde “congegni […] stimati troppo costosi e complicati, […] da raccomandarsi, se mai, ai commessi viaggiatori che persuadano dell’utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati […]. Ma la loro nullità filosofica rimane, sin da ora, pienamente provata”.

Osimo non è affatto d’accordo e anzi ritiene che il metodo scientifico potrebbe giovare molto alla teoria della traduzione perché permette di:

  • evitare di dire la stessa cosa credendo di dire due cose diverse
  • evitare di dire due cose diverse credendo di dire la stessa cosa.

Questi due rischi all’atto pratico si traducono nel rischio che diversi teorici della traduzione finiscano per scrivere lavori che, per usare le parole di Peeter Torop, “sono simili o si differenziano unicamente per quanto riguarda il metalinguaggio impiegato, al punto che in taluni casi si tratta di compilazione e di plagio”.

Del resto il discorso sull’utilità di un approccio scientifico alla traduzione era già stato fatto da Lûdskanov nel lontano 1967, in cui notava come la forte resistenza all’introduzione del metodo scientifico venisse spesso dai traduttori stessi o in generale dai fautori della “tradizione teorico-letteraria”. Essi contestavano la natura linguistica – cioè scientifica – del processo traduttivo che, a parere loro, invece era letterario. Questa obiezione è, sempre secondo Lûdskanov, insensata: è vero che per un traduttore è necessario avere conoscenze del linguaggio specialistico in cui traduce, ma questo vale solo per l’analisi extralinguistica. Di fatto non ha senso isolare la traduzione letteraria dagli altri tipi di traduzione dal punto di vista dell’approccio. Ma non solo: non ha senso isolare la traduzione letteraria perché è molto difficile definirla e perché le definizioni cambiano da cultura a cultura.

In effetti letteratura è un termine inaffidabile. In ambito scientifico “letteratura” è un sinonimo di bibliografia, ovvero l’insieme delle opere che trattano di un argomento, quindi per differenziare dovremmo forse usare il termine letteratura artistica come nei paesi di lingua slava. Secondo alcuni a “letteratura” si deve sostituire il termine “fiction” cioè opera di finzione, ma questo pone il problema di opere come “Se questo è un uomo”, che sono indubbiamente letteratura ma non sono affatto finzione.

Non ha senso che la traduzione letteraria abbia una natura speciale perché, come Lûdskanov ribadisce nel 1969, tutte le traduzioni sono in realtà creative perché il processo traduttivo è “condizionato dalla natura linguistica di questa operazione e dallo specifico dei linguaggi naturali che presuppone scelte preliminarmente non regolamentate fra segni e significati a tutti i livelli dei linguaggi naturali”.

Viene da chiedersi: ma in concreto, cosa ci può essere di scientifico nella traduzione? E soprattutto, i traduttori sono forse scienziati?

Ovviamente i traduttori non sono scienziati, sono però esseri umani che esibiscono una serie di comportamenti alla base dei quali vi sono processi e risultati.

Lo scienziato della traduzione in realtà è un etologo, che studia il comportamento del traduttore o, per meglio dire, analizza l’originale e la traduzione cercando di capire i processi che intervengono e le differenze che si generano.

Secondo la concezione di Ferdinand De Saussure, la lingua è un elenco di segni linguistici ciascuno dei quali è una corrispondenza biunivoca tra un concetto che può essere anche un oggetto reale – ad esempio un gatto – e una immagine acustica – cioè la “parola” vera e propria -. Questo ridurrebbe i traduttori a meri ragionieri il cui compito è trovare le corrispondenze e trasferirle.

Secondo Charles Sanders Peirce invece gli elementi sono tre:

  • il segno, cioè un qualcosa che fa scattare la scintilla del pensiero interpretativo: un’immagine, una parola scritta, un suono
  • l’interpretante, che non è la persona ma un processo mentale, un’idea, un ingranaggio che elabora il segno e produce
  • l’oggetto: qualcosa che di per sé esiste a prescindere dal segno – un sasso esiste anche se non sai come si dice in ungherese – ma che può essere conosciuto, identificato solo attraverso il segno e l’interpretante.

Attenzione però: l’interpretante non è un interruttore statico che crea una corrispondenza, ma qualcosa di incostante e mutevole, influenzato da vari fattori esterni. Al medesimo segno due persone diverse possono dare un diverso interpretante e lo stesso vale per una persona in momenti diversi. Il traduttore partendo dal prototesto, scritto nella lingua-cultura emittente, lo interpreta per mezzo delle sue conoscenze e capacità e produce un metatesto, o più di uno, in una o più culture riceventi.

E qui, nel raffronto tra prototesto e metatesto si nota uno shift, una serie di differenze di diverso tipo. Quelle più interessanti non sono quelle solo linguistiche ma quelle che cambiano la ricezione del metatesto e che mostrano il modo in cui il traduttore abbia modificato il prototesto. Su questi dati si può lavorare con approccio scientifico.

Poiché, come abbiamo detto, si interpreta il prototesto e si produce un metatesto è lecito e corretto pensare che, come nel processo percettivo, ci sia nella nostra mente una distorsione dell’oggetto causata da uno o più bias cognitivi. Mentre i bias cognitivi della percezione influenzano solo noi, i bias nella traduzione ci portano a generare un metatesto che poi qualcuno leggerà e a sua volta interpreterà.

Osimo ha raggruppato i diversi tipi di bias cognitivo nella traduzione in 3 macro-categorie:

Distorsioni della relazione

La prima macrocategoria riguarda le connessioni tra gli elementi del testo che a volte il traduttore non riproduce o altera e si divide nelle seguenti categorie:

    1. intratesto, intertesto, realia, cacofonia: modifiche alla rete dei collegamenti e rimandi interni ed esterni o elementi (realia) non esistenti nella cultura del testo tradotto, o modifiche tese a rendere la realtà “più comprensibile”
    2. stile personale: ad esempio Čehov usa spesso due aggettivi senza congiunzione che nella traduzione vengono uniti da una congiunzione, violando la struttura del testo voluta dall’autore
    3. cadenza, enfasi sintattica: modifiche a rime, metrica, struttura dei paragrafi e punteggiatura per dare un ritmo più scorrevole che però non è quello voluto dall’autore
    4. indicalità, punto di vista, riferimento interpersonale: si tratta dell’uso dei deittici (qui, là, questo, quello) e simili elementi che rappresentano la distanza; spesso i deittici di prossimità nella traduzione diventano deittici di lontananza, ma questo altera la percezione delle relazioni all’interno del testo
    5. destinatario (registro, tipo di testo): le distorsioni sono spesso dovute all’imperizia del traduttore che non riconosce le caratteristiche di un tipo di testo o i suoi destinatari e questo causa, ad esempio, la cancellazione dell’ironia (nota dominante nell’originale) in alcune traduzioni di Pride and prejudice.
Distorsioni della realtà

Le distorsioni di questa categoria sono più gravi e hanno effetti imprevedibili e spesso devastanti, perché si distorce proprio la realtà, quindi gli oggetti che nel prototesto vengono rappresentati.

    1. cambiamento radicale di senso: a volte il traduttore decide che nel prototesto manca qualcosa e quindi aggiunge un elemento che specifica o rende più “logico” il testo, oppure viceversa omette qualcosa perché appartenente alla cultura del prototesto e magari difficile da capire. Gli effetti di una modifica di questo tipo sono assolutamente imprevedibili
    2. modulazione del testo (generalizzazione/specificazione): il traduttore, per mancata conoscenza o per l’onnipresente tentativo di rendere il testo più “comprensibile” decide di essere più preciso del prototesto o viceversa si arroga il diritto di esserlo meno e quindi di diventare più vago perché non c’è bisogno di essere così precisi.
    3. calchi semantici: traduzione di un termine con uno che assomiglia graficamente o foneticamente ma ha tutt’altro significato, tipo morbid tradotto con morbido mentre sarebbe morboso.
Distorsioni della conoscenza

Queste distorsioni sono dovute a lacune nel bagaglio personale del traduttore che però non se ne accorge e presume diversamente:

    1. presunzione enciclopedica e/o logica: si ha quando un traduttore non sa ma presume di sapere, quindi ad esempio traduce lo stato del Rhode Island come Isola di Rodi non dandosi la pena di controllare
    2. ancoraggio, focalismo, uso e leggibilità: qui le distorsioni sono fatte ignorando ad esempio le collocazioni e l’uso di una parola tipo quando Weissbier diventa birra di frumento.

L’ultima parte dell’intervento è sulla scelta della migliore metafora per rappresentare la traduzione. Data infatti la fatica che il traduttore fa, sarebbe bello che la traduzione fosse rappresentata con una metafora che faccia capire davvero cos’è la traduzione.

Osimo smonta una per una tutte le tradizionali metafore della traduzione:

  • la traduzione come trasporto (“lingua di partenza/lingua di arrivo”): innanzitutto questa metafora funziona solo in italiano ed è una traduzione peraltro imprecisa di “source language/target language”. Non è proficua perché toglie ogni creatività al traduttore ridotto a trasportatore e riduce le lingue ad oggetti anziché organismi, oltre che il testo a qualcosa di inerte anziché un processo a sua volta vivo
  • la traduzione come copia (uso di termini come equivalenza etc): non funziona perché se c’è equivalenza allora non c’è interpretazione né creatività e non c’è interpretante. Abbiamo visto, però, che queste cose ci sono eccome e per di più la backtranslation dovrebbe essere un’operazione indolore e la machine translation dovrebbe scorrere senza problema
  • la traduzione come sfida (non far capire che il testo è tradotto, guai a mettere una nota, modificando anche il contenuto per “non far capire”): non funziona perché la negazione della realtà è quasi psicotica e soprattutto perché il pubblico non è del tutto incompetente. L’uso di una nota di traduzione invece può aiutare a capire aspetti della cultura del prototesto senza forzare la mano
  • a traduzione come ponte trasparente: qui le critiche sono analoghe alla metafora del trasporto. Ridurre il traduttore ad una struttura lo priva della sua creatività e della sua autonomia, rendendolo rigido. Personalmente trovo che qui la metafora sia stata stroncata attenendosi solo al suo significato letterale e vedendo un ponte come una struttura fredda e inerte. Credo molto nell’idea della traduzione come ponte – quando la si attraversa (leggendo) ci si può fermare, tornare indietro, essere presi dalle vertigini etc.
L’unica opzione possibile è pensare alla traduzione come tropo, cioè come metafora

Un tropo o traslato è un’ottima metafora per la traduzione. Anche nella traduzione, infatti, si hanno due elementi – prototesto e metatesto –  uniti da un legame dovuto all’interpretante, attraverso un processo in cui troviamo elementi invarianti – il testo o gran parte di esso -, elementi che vengono aggiunti dalla percezione e dall’elaborazione del traduttore e un residuo che invece si perde, ciò che non riusciamo a rendere o non percepiamo. Inoltre, il tropo:

  • modifica senza darlo a vedere (la traduzione modifica!)
  • non è biunivoco né equivalente
  • ha un suo stile ed è creativo
  • non permette la backtranslation

Ho trovato l’intervento di Bruno Osimo molto interessante e pieno di spunti da sviluppare ulteriormente e da rivedere con angolature diverse. A volte mi trovavo a non essere d’accordo con alcune sue affermazioni ma spesso nel corso dell’intervento stesso cambiavo idea.

 

Vera Gheno – Da Guida pratica all’italiano scritto a Social-linguistica: perché anche i traduttori devono saper scrivere bene in ogni contesto

L’intervento di Vera Gheno è un perfetto equilibrio di nozioni teoriche e di dimostrazioni pratiche di quella che è la lingua che al giorno d’oggi si parla sul web, soprattutto nei social. Il punto di partenza è l’annosa polemica sull’imbarbarimento e appiattimento della lingua italiana, già puntualizzato ad esempio da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane e spesso riportata in auge da persone aventi diversi livelli di competenza linguistica. C’è spesso una certa refrattarietà all’idea che la lingua la facciano i parlanti e che di fatto le grammatiche e i linguisti spesso altro non possono fare che registrare delle variazioni nell’uso. Giova ricordare che cosa sia una lingua, proprio dal punto di vista linguistico:

Una lingua è un codice, condiviso da una comunità, regolato da convenzioni e usato per comunicare. La chiave in tutto questo è che il codice deve essere condiviso dalla comunità ed è proprio ciò che serve anche a fissare le convenzioni, quella che in altri termini potremmo chiamare la norma linguistica.

La norma linguistica per essere tale deve essere accettata dai parlanti, non può essere imposta ma è comunque legata ad un determinato contesto spazio-temporale; per dirla con le parole di Luca Serianni, “La norma linguistica è come il comune senso del pudore, cambia con il cambiare dei tempi”. Il paragone è calzante perché rende anche l’idea che non sempre la direzione del cambiamento possa essere prevedibile. In altre parole non è vero come molti sostengono che “più passa il tempo meno regole ci sono, è permesso dire tutto e il contrario di tutto,” così come certe cose ora si possono dire, altre NON si possono più dire: ai tempi di Leopardi, dire “facci” – “Per grandezza di valore che tu dimostri, per bellezza di opere che tu facci” – era non solo accettato ma evidentemente anche di alto registro, oggi ci fa pensare al “congiuntivo” del Rag. Ugo Fantozzi.

L’errore linguistico porta con sé diverse conseguenze e problemi, nella fattispecie:

  • è accompagnato da stigma sociale: chi fa un errore fa anche una figuraccia
  • rende difficile la comunicazione: se usiamo qualcosa nel modo sbagliato o qualcosa che non esiste, come si fa a capire cosa abbiamo detto?
  • crea una percezione di ignoranza: avrà sbagliato perché non sa parlare bene o è solo una svista?

Per usare una metafora forte potremmo dire che L’errore è come l’alitosi: distrae dal contenuto perché quando arriva l’errore non riusciamo più a pensare ad altro. E sui social network spesso le reazioni sono scomposte, rabbiose e a volte fuori luogo.

Ma se è comprensibile l’orrore di fronte all’errore, ci sono però degli altri problemi che derivano dal fatto che spesso chi critica e punta all’errore è egli stesso in errore; tra le maggiori criticità che si incontrano nei “censori” del web troviamo:

  • nozionismo arido: sapere le cose e snocciolare il proprio sapere per il puro gusto di farlo e in modo statico, senza considerare le implicazioni e le connessioni;
  • nessun dubbio: le cose “stanno così” e basta, il fatto che un nostro interlocutore usi una forma che noi riteniamo sbagliata e che perfino gente che stimiamo non sia d’accordo con noi non ci fa venire il dubbio di avere preso una cantonata;
  • pregiudizi basati su ricordi scolastici: abbiamo detto che la lingua cambia. Eppure certe persone sono ferme alla grammatica che hanno imparato sui banchi di scuola, le cui regole vengono spesso snocciolate con la solennità dei dogmi.

Precisato questo punto, vediamo ora alcune caratteristiche di questa nuova forma di italiano che si va creando e formando a seguito della rivoluzione della comunicazione portata dai social network. Iniziamo col dire che il contesto di partenza all’arrivo dei “social” era già poco rassicurante e continua a non esserlo, come mostrano i dati sui consumi culturali odierni:

  • prima fonte di informazione: TV per molti italiani specie in alcune fasce anagrafiche;
  • giornale più letto: Gazzetta dello Sport;
  • un italiano su due non legge nemmeno un libro l’anno;
  • circa il 10% delle famiglie italiane non possiede libri a casa;
  • siamo sotto la media EU per l’uso di internet;

Verrebbe da dire, come sosteneva De Mauro, che il problema non è l’italiano, sono gli italiani.

Per meglio capire la natura dell’italiano parlato sui social possiamo riassumerne le caratteristiche:

  • non è esattamente un italiano scritto, in quanto i muscoli e le sinapsi attivate dalla scrittura a mano non sono attivate dalla scrittura su una tastiera o touch screen;
  • non è neanche esattamente un italiano parlato perché le caratteristiche fisiche sono più simili allo scritto: i messaggi restano nel tempo, non è possibile veicolare la gestualità o il tono se non in parte;
  • assomiglia comunque di più al parlato, da cui trae le caratteristiche di registro e di uso: sono infatti più comuni errori o comunque dinamiche che nello scritto sono inaccettabili come il mancato uso del congiuntivo, conversazioni informali, messaggi urgenti.

La definizione più comune è quella di italiano digitato.

Vediamo ora alcune caratteristiche piuttosto comuni di questa forma di espressione..

Acronimi, tachigrafie, troncamenti che spesso sono comprensibili solo leggendo ad alta voce
  • DCD+ (dicci di più), OTP (one-two pair)
  • Stase, pome, asp/aspe
  • Cmq, nn, xke

Si tratta in generale di scelte tese a ridurre lo spazio in caratteri usato e il tempo di digitazione, oggi sono in disuso per il semplice motivo che si usano applicazioni che non hanno limiti di dimensioni del testo né si pagano a caratteri e soprattutto perché esistono funzioni di completamento del testo che suggeriscono le parole. In particolare le “k” al posto di “ch” oggi sono molto rare e relegate all’infanzia e prima adolescenza.

Emoticon ed emoji

Le ben note “faccine” usate per tentare di veicolare il proprio stato d’animo o opinione su quanto si è appena scritto, dai classici orizzontali, fino agli emoji, veri e propri elementi grafici. Il primissimo uso di emoticon risale al 1982 ma pare che perfino gli amanuensi aggiungessero, a lato delle pagine che ricopiavano, dei segni simili con cui ridevano su quello che copiavano o mostravano tristezza.

Uso diverso della punteggiatura, del maiuscolo e del minuscolo

Alcuni di questi usi, come il tutto maiuscolo per “urlare” risalgono agli albori dell’informatica, altre come il tutto minuscolo per risparmiare tempo sono aggiunte più recenti.

Il punto alla fine della frase spesso viene usato in modo marcato per indicare aggressività, freddezza o comunque per indicare che la frase non è neutrale, esempio:

  • Ci sono problemi?
  • No
  • Ci sono problemi?
  • No.
Uso creativo (a volte errato) degli spazi

Altra caratteristica è la tendenza a omettere gli spazi in alcune parole giocando con la pronuncia o per dare un maggiore senso di “informalità” o “forza”, come mobbasta, macchestaiaddì. Il problema è che a volte questo porta a dei veri e propri errori: tutto apposto (a posto), avvolte (a volte) e così via.

Peraltro togliere gli spazi per economizzare ha un precedente illustre: l’affresco sulla catacomba di Commodilla, “Non dicere ille secrita a bboce” – non dire le cose segrete a voce alta – dove però gli spazi mancavano per brevità.

Anglicismi usati più o meno correttamente

Gli anglicismi sono talmente tanti che vale la pena dividerli in tre categorie distinte:

  • tecnicismi di tipo informatico: download, script, app, spesso usati come basi per neologismi sono sempre esistiti;
  • pseudo-tecnicismi legati a specifiche applicazioni e al mondo dei social: instagrammare, influencer, youtuber;
  • anglicismi di tipo espressivo o enfatico, o legati alle serie tv o ai videogiochi: epic win/fail, spoiler, game over, shippare, “desiderare che due personaggi di una serie abbiano una storia, una relationship”.

Riguardo agli anglicismi, specie a quelli dei primi due tipi, sono preziosi i consigli di Sabatini, ovvero 

Prima di usare un anglicismo chiediti:

  • Lo sai pronunciare?
  • Lo sai scrivere?
  • Sai cosa vuol dire e come si usa?
  • Sei sicuro che l’interlocutore lo comprenda?

Se non è così rischi di fare una brutta figura o di mostrare disprezzo o alterigia nei confronti dell’interlocutore.

Uso dei dialetti

Essendo l’italiano digitato spesso usato in contesti informali non stupisce che il dialetto ne faccia parte in una certa misura. Tra gli esempi più evidenti troviamo:

  • espressioni in romanesco usate più o meno correttamente: daje, bellazì, limorté/ccitua, esticazzi;
  • prestiti da altri dialetti dovuti a mode del momento: “besugo” ai tempi del Gabibbo o “balengo” e “iolanda” introdotti da Luciana Litizzetto;
  • altri a diffusione più strettamente locale.
Risemantizzazioni funzionali

Questo aspetto è molto importante: con l’avvento dei social network e piattaforme analoghe, alcuni termini hanno acquisito un nuovo significato e spesso vengono usati solo in quella accezione sul web:

  • aggiungere/bloccare (su un social network);
  • profilo;
  • amico;
  • condividere.
Invenzioni linguistiche

Qui si scatena la fantasia, si tratta di termini inventati per trasformare frasi in singoli verbi o aggettivi, o varianti di frasi particolarmente in auge:

  • cuorare, mettere un cuore su una foto di Instagram;
  • perculare, prendere in giro;
  • occheione, dal “ciaone” di renziana memoria;
  • savasandir, ça va sans dire
  • mansplaining, quando un uomo si sente in dovere di spiegare qualcosa ad una donna perché convinto che lei non ne sia in grado.
Riferimenti pop

Anche questi sono molto frequenti, si tratta di citazioni da serie tv o programmi o film:

  • “Mi stai diludendo, vuoi che muoro?” Joe Bastianich in Masterchef
  • “92 minuti di applausi”, film di Fantozzi
  • “Per me è un sì”, X-Factor
  • “Vedo la gente morta/scema”, film “Il sesto senso”
  • “Tutto molto interessante”, una canzone di Rovazzi
  • “Sapevatelo”, Vulvia, personaggio di Corrado Guzzanti
  • “Magna tranquillo”, da una foto su internet
  • “L’inverno sta arrivando”, serie TV “il trono di spade”.

Quello che bisogna evitare a tutti i costi è il “whateverismo linguistico”, ossia quell’idea che si possa scrivere tutto, in tutti i modi e senza convenzioni, l’importante è che “passi il messaggio” ma questo è sbagliato perché:

  • impoverisce la lingua e la rende sciatta e brutta da vedere;
  • rende difficile distinguere tra errori di battitura e errori veri e propri di non conoscenza di un termine o di un uso
  • è schiavo del falso mito della velocità per cui l’importante è sbrigarsi: non è vero;
  • a volte il messaggio non passa e quindi bisogna spiegarsi, perdendo tempo, o peggio ancora passa il messaggio sbagliato.

Al netto dei problemi di cui sopra, l’esistenza di questa particolare varietà di italiano non è di per sé negativa perché vuol dire che l’italiano è vivo e in salute, che viene usato per comunicare, l’importante è che ciascuno di noi ricordi che:

  • questo tipo di lingua va usato solo in contesti ben circoscritti: non comunicazioni scritte a mano o comunque formali;
  • è solo UN registro, non l’unico;
  • è una varietà linguistica molto mobile, nel bene e nel male.

Per concludere, ricordiamo sempre che la lingua è un atto di identità, che ogni parola che scelgo definisce ciò che penso e lo comunica e questo è importante soprattutto online perché una volta scritto qualcosa esso resta e non è possibile, se non in forma limitata, aggiungere elementi extratestuali.

Ricordiamo anche che, secondo la Teoria Sapir-Whorf: 

Le parole che uso influiscono sul mio modo di vedere il mondo ma, allo stesso tempo, il mondo influisce sulle parole che uso.

Perché tutto ciò è importante per i traduttori? Perché questa “lingua” nuova non è un’esclusiva dell’italiano e quindi quanto detto sull’importanza di scrivere nel modo giusto per noi vale ancora di più.

L’intervento si chiude con un bellissimo passaggio su ciò che è una lingua, che riporto integralmente:

Le lingue non sono tanto un mezzo per esprimere una verità che è già stata stabilita, quanto un mezzo per scoprire una verità che era precedentemente sconosciuta.

La loro diversità non è una diversità di suono e di segni ma di modi di guardare il mondo.”

– Károly Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile

 

Ho trovato l’intervento di Vera Gheno un gioiello dalle numerose sfaccettature. Ci sono state nozioni tecniche, citazioni, momenti più umoristici ma soprattutto è risultato evidente il profondo amore per la nostra lingua, pur con tutte le sue imperfezioni.

 

Francesco Urzì – Quello che le grammatiche non dicono

L’intervento di Francesco Urzì, linguista e traduttore, è il più tecnico della giornata e si concentra principalmente sul raffronto tra il corpus dei testi usati nell’Unione Europea e un corpus della lingua usata dalle persone, con risultati interessanti non reperibili sulle normali grammatiche. Gli aspetti analizzati sono i seguenti:

Articolo determinativo, soprattutto usato come dimostrativo

Nel linguaggio dei testi UE si usano spesso forme marcate come “siffatta” o “tale” dovute a traduzioni forse approssimative dall’inglese o altre lingue:

“Le misure conservative consentono di conservare le prove (di qualsiasi tipo: del testimone, dell’esperto ecc.) prima dell’avvio del procedimento. Tali misure vengono prese a seguito di una domanda e non su iniziativa del tribunale. Tale domanda deve essere presentata dalla persona autorizzata ad adire il tribunale per il procedimento in cui potrebbero essere usate le prove di cui si dispone grazie alle misure conservative”.

In entrambi i casi si potrebbe sostituire con Le misure e La misura.

Gerundivi

I gerundivi sono sostantivi derivanti dal gerundio. Alcuni sono entrati nel parlato comune con significati diversi: la merenda era qualcosa che andava meritato, ad esempio, o costituenda, da costituire, che sarà costituita. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare nei testi UE, forse per mancanza di competenze, non vengono usati e quindi troviamo:

“Anche se l’agenzia che sarà costituita svolgerà incarichi amministrativi in maniera autonoma…”

Mentre sarebbe molto più scorrevole ed elegantemente formale

“Anche se la costituenda agenzia svolgerà incarichi amministrativi in maniera autonoma…”

Fattorizzazione

In matematica la fattorizzazione è la raccolta dei fattori comuni in un espressione: AB+AC lo scriviamo A(B+C). Questo si può fare anche nello scritto mettendo insieme parole che hanno in comune una parte, come teleriscaldamento e teleraffreddamento nel seguente esempio:

“La proposta garantisce agli investitori certezza quanto al conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea e un sostegno alle misure di miglioramento dell’efficienza energetica, quali la cogenerazione ad alto rendimento e i sistemi di teleriscaldamento e teleraffreddamento”.

Che possiamo rendere più scorrevole così:

“La proposta garantisce agli investitori certezza quanto al conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea e un sostegno alle misure di miglioramento dell’efficienza energetica, quali la cogenerazione ad alto rendimento e i sistemi di teleriscaldamento e -raffreddamento.”

Questo primo esempio è di fattorizzazione a sinistra, ma si può fare anche a destra con l’espressione “dati quali- e quantitativi” al posto di “dati qualitativi e quantitativi”.

Zeugma

Lo zeugma è una figura retorica con cui si fanno dipendere da un’unica frase più elementi di cui però solo uno vi dipende dal punto di vista logico, come nella Divina Commedia: “Parlare e lagrimar vedrai insieme” (Dante, Inferno XXXIII, 9).

Questa figura retorica si può usare per rendere più agili e brevi alcune frasi come in questi esempi:

  1. “[…] il prodotto, le iniziative di co-branding, gli spazi espositivi, i siti web e i media elettronici, e le persone costituiscono il quadro entro cui si costruisce l’esperienza del e con il cliente”.
  2. “Nell’ambito del volume ci sono evidentemente tracce di, e confronti con il pensiero di Picone;[…]”.
  3. “[…] primordiale veicolo di informazioni cariche di senso e significato e facilitatore nelle complesse attività di comprensione e comunicazione del e con il mondo esterno”.

Un particolare esempio di applicazione di questo costrutto avviene quando dobbiamo tradurre l’espressione inglese “across and within”, molto comune nel linguaggio formale ad esempio “across and within member states” viene resa con “tra e negli” invece che con due proposizioni più pesanti: in questo caso “tra e negli stati membri” invece di “tra gli stati membri e al loro interno”.

Nominalizzazione

Un altro accorgimento di cui tenere conto nella traduzione è la nominalizzazione. In inglese spesso si usano sostantivi come “establishment” inteso come “il fatto di stabilire/prevedere” come in

“Accordingly, the establishment of a system of strict liability such as that at issue in the main proceedings, which penalises infringement of that regulation, is not, of itself, incompatible with European Union law“.

“Pertanto, il fatto di prevedere un sistema di responsabilità oggettiva, come quello di cui trattasi nella causa principale, che sanziona la violazione di detto regolamento non è, di per sé, incompatibile con il diritto dell’Unione”.

Si tratta di una costruzione piuttosto pesante che si potrebbe rendere in un modo più elegante con un sostantivo derivato dall’infinito: “la previsione di un sistema di responsabilità” oppure “il prevedere un sistema di responsabilità”.

A tale proposito si possono usare anche delle vere e proprie costruzioni infinitivali, ad esempio:

“In particular, the fact that the applicant approved the contingency plan […]”

“In particolare, l’aver il ricorrente approvato il piano di intervento […]”

Anche se formale risulta più agile di

“In particolare, il fatto che il ricorrente abbia approvato il piano di intervento […]”

Urzì poi fa un passaggio molto breve sulle questioni del genere dei sostantivi, notando come si stiano cominciando ad usare i sostantivi femminili in –trice (difenditrice, evaditrice) soprattutto per le persone, poi passa ad affrontare un tema molto interessante.

Il congiuntivo

Diversi studiosi si chiedono se al giorno d’oggi il congiuntivo sia veramente il modo dell’incertezza e del dubbio, o non sia invece semplicemente un modo più elegante e di registro più alto di parlare.

Analizzando l’uso comune e le grammatiche più recenti Urzì conclude che:

  1. non è corretto dire che al congiuntivo è riservata l’incertezza e all’indicativo la certezza, infatti si può dire “mi spiegò come fosse necessario avvertire prima”, qui non c’è incertezza, o anche “sono assolutamente certo che le cose stiano così;”
  2. se la questione certezza/incertezza fosse così evidente i bambini non avrebbero problemi ad imparare la differenza;
  3. in alcune frasi non c’è proprio differenza (credo che Dio esistE/ credo che Dio esistA)

Allo stato attuale il congiuntivo ha i seguenti usi:

  • Nelle frasi indipendenti viene usato per una serie di funzioni:
    1. Desiderativo: che muoia!
    2. Dubitativo: che abbia commesso una gaffe?
    3. Esortativo: Si accomodi!
    4. Concessivo: Sia pure così!
  • Nelle frasi dipendenti il congiuntivo ha un uso obbligatorio richiesto dalla sua posizione sintattica di complemento:
    1. Proposizioni concessive: “Benché si sia alzato presto, ha perso il treno”
    2. Proposizioni finali: “Gli ho mandato una email perché mi spedisca l’articolo”
    3. Proposizioni eccettuative: “fai ciò che ti sembra meglio, salvo che non ti venga ordinato diversamente”
  • A volte invece è il verbo della principale che richiede il congiuntivo:So che Mario è partito”, ma “Temo che Giovanni sia partito”
  • Altre volte è un’accezione del verbo: “Ho deciso che sia lui a partire” è diverso da “ho deciso che è meglio non partire” perché si decide per un’altra persona.
  • Infine il congiuntivo può servire ad indicare che non si crede completamente a quanto si riferisce in frasi come “Dicono che…” infatti “Dicono che sia scappato con i soldi” indica una maggiore distanza del parlante rispetto a “Dicono che è scappato con i soldi,” ma questa non è una regola assoluta infatti si potrebbe usare l’indicativo solo perché è meno istruito e non sa bene usare il congiuntivo, o viceversa usare il congiuntivo per esprimersi in un registro volontariamente più alto.
Gli aggettivi relazionali semplici e composti

Ultimo tema della giornata e del convegno è la creazione degli aggettivi relazionali composti. Un esempio è pubblico-amministrativo, che è “l’aggettivo” di pubblica amministrazione. Da amministrazione si ottiene amministrativo mentre pubblico è di per sé un aggettivo.

In italiano questi aggettivi si possono formare in due modi: mantenendo l’ordine del sintagma originale  – come appunto nell’esempio pubblica amministrazione diventa pubblico-amministrativo – tipico delle lingue romanze, oppure invertendolo secondo lo stile delle lingue germaniche, quindi da analisi tecnica si arriva ad es. a “capacità tecnico-analitiche”.

Urzì poi introduce l’importante distinzione tra composti aggettivali e composti aggettivati.

I primi sono coordinativi e quindi i componenti sono alla pari, come in conflitto arabo-israeliano, mentre i secondi sono determinativi e risultano da un processo di derivazione in cui, in altre parole uno degli aggettivi definisce meglio l’altro. Economico-sanitario deriva da “economia sanitaria” e vuol dire “relativo all’economia sanitaria”, non “economico e sanitario”.

In alcuni casi lo stesso aggettivo può avere diversi significati ed essere il risultato di un composto aggettivale o di un composto aggettivato. L’esempio più classico è politico-economico, infatti questo aggettivo può significare:

  1. relativo sia alla politica che all’economia (strategie politico-economiche) in questo caso siamo di fronte ad un composto aggettivale e coordinativo;
  2. relativo alla politica economica (progetti politico-economici) con un composto aggettivato.
  3. sinonimo di “politico a fini economici” come in (accordi politico-economici) in questo caso è un composto aggettivale determinativo.

Rispetto al tedesco l’italiano offre meno libertà di derivazione. È necessario infatti che l’aggettivo che va per primo nel composto sia in grado di assumere la terminazione in –o (tipo formativo neoclassico), ad esempio non si può creare un composto aggettivale da “politica dei consumatori”, a volte si ovvia usando calchi dall’inglese (ad es. consumeristico).

Ho trovato l’intervento di Urzì interessante ma forse troppo teorico, anche considerato che si trattava dell’ultimo intervento della giornata.

 

Conclusioni

Dopo l’ultimo intervento una quota sostanziosa dei partecipanti si è recata all’aperitivo di networking in un incantevole locale a due passi dalla sede del convegno, in cui è stato possibile discutere di varie questioni del nostro lavoro e fare conoscenza.

In conclusione, TradPRO è stato un grande successo e non vedo l’ora di partecipare all’edizione 2019. 

Ricordate di lasciare il vostro commento a questo post o sui profili social di TradInFo su Facebook e Twitter.

 

2 Commenti
  • Laura Gervasi
    Pubblicato alle 21:41h, 11 Maggio Rispondi

    Wow Francesco!! Grazie mille per questo resoconto dettagliatissimo. Avrei tanto voluto partecipare anche io a TradPro ed ero stata lì lì per iscrivermi, ma alla fine non sono riuscita per impegni di lavoro concomitanti. Grazie a questa tua fantastica sintesi mi sento un po’ come se ci fossi stata, anche se ovviamente esser presenti in prima persona è tutt’altra cosa, sia per la parte di formazione sia per quella di networking. Grazie per averci reso partecipi e speriamo di poter organizzare una delegazione Tradinfo a TradPro l’anno prossimo!

  • Adelina Rossano
    Pubblicato alle 07:39h, 15 Maggio Rispondi

    Grazie Francesco, un lavoro di sintesi eccellente e piacevolissimo da leggere. Non ho potuto partecipare quest’anno ma anche io ho avuto la sensazione di essere stata lì leggendo il tuo post. Grazie ancora!!

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